La parità di genere si può “prendere in prestito”? Avvalimento e certificazione negli appalti pubblici

Il Consiglio di Stato ammette l’avvalimento premiale della certificazione per la parità di genere: un’analisi critica tra giurisprudenza, Codice appalti e reale attuabilità dei principi inclusivi.

di Aurora Donato - 31/07/2025

La certificazione della parità di genere è approdata nel nostro ordinamento sull’onda del PNRR: introdotta all’art. 46-bis del Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198) dalla legge 5 novembre 2021, n. 162, è in vigore dal 1° gennaio 2022.

La certificazione della parità di genere

Essa attesta le politiche e le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della genitorialità.

Ai sensi del Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le pari opportunità del 29 aprile 2022, i parametri minimi per il conseguimento della certificazione sono quelli indicati nella Prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022, pubblicata il 16 marzo 2022.

Tale prassi contiene le Linee guida sul sistema di gestione per la parità di genere, che individuano una serie di specifici KPI (Key Performance Indicator, indicatori chiave di prestazione) di natura qualitativa e quantitativa, relativi alle politiche di parità di genere nelle organizzazioni.

Le aree strategiche di valutazione sono sei:

  1. cultura e strategia;
  2. governance;
  3. processi di gestione delle risorse umane;
  4. opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda;
  5. equità retributiva di genere;
  6. tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro.

A ciascuna area corrisponde un peso percentuale, e ogni indicatore è associato a un punteggio. Per accedere alla certificazione è necessario raggiungere un punteggio minimo complessivo del 60%, soglia che consente anche alle organizzazioni più deboli su alcuni profili di compensare con migliori risultati su altri indicatori.

È evidente che la certificazione della parità di genere, di per sé, non rappresenta una soluzione strutturale alle disuguaglianze di genere né alle dinamiche sistemiche del patriarcato. Tuttavia, se utilizzata come strumento premiale – come avviene, ad esempio, nell’ambito degli appalti pubblici – può costituire un’occasione per indurre le imprese a confrontarsi, magari anche con riluttanza, con il tema della parità di genere, se non addirittura a rimettere almeno in parte in discussione le proprie prassi consolidate in materia di carriere, retribuzioni e organizzazione del lavoro.

La certificazione negli appalti pubblici e l’avvalimento premiale

Per quanto riguarda gli appalti pubblici, già l’art. 34 del D.L. 30 aprile 2022, n. 36 (Ulteriori misure urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza) aveva introdotto, all’art. 95, comma 13, del D.Lgs. n. 50/2016, un criterio premiale per il possesso della certificazione della parità di genere.

Nel Codice dei contratti pubblici attualmente vigente (D.Lgs. n. 36/2023), il comma 7 dell’art. 108 – dopo una breve fase, fortunatamente superata prima dell’efficacia delle nuove norme, in cui era consentito alle imprese attestare il possesso dei requisiti anche tramite autocertificazione – prevede l’obbligo per le stazioni appaltanti di inserire nei bandi di gara, negli avvisi e negli inviti l’attribuzione di un punteggio premiale per l’adozione di politiche volte al raggiungimento della parità di genere, comprovata dal possesso della relativa certificazione.

Una novità sostanziale rispetto al sistema previgente è rappresentata dall’espressa disciplina dell’avvalimento premiale, ossia la possibilità, per un concorrente, di avvalersi delle risorse di un altro soggetto non solo per soddisfare i requisiti di partecipazione alla gara, ma anche per ottenere un punteggio più elevato.

La mancanza di un coordinamento esplicito tra l’art. 104, che consente l’avvalimento premiale, e l’art. 108, che impone l’attribuzione di punteggio alla certificazione della parità di genere, ha generato un cortocircuito interpretativo con cui si è confrontata la giurisprudenza amministrativa.

Due orientamenti giurisprudenziali: una certificazione come le altre? 

Le prime sentenze sulla possibilità di ricorrere all’avvalimento premiale per la certificazione della parità di genere, pronunciate a pochi giorni di distanza l’una dall’altra, hanno dato origine a due orientamenti contrapposti.

Il primo, contrario all’avvalimento, ha sottolineato come la certificazione, strettamente connessa agli obiettivi del PNRR, attenga a una condizione soggettiva e intrinseca di ciascuna impresa e, pertanto, non possa essere oggetto di avvalimento, non rappresentando una risorsa trasferibile ad altri operatori (TRGA Bolzano, 4 novembre 2024, n. 257, successivamente annullata dal Consiglio di Stato). Nello stesso filone, si è successivamente anche sottolineato che la certificazione mira a sollecitare l’adozione, da parte delle imprese, di politiche organizzative e produttive orientate alla parità di genere e che, configurandosi come una qualifica soggettiva “ed anche etica” dell’impresa concorrente, non può essere oggetto di prestito, che altrimenti risulterebbe meramente formale o “cartolare” (TAR Campania, Napoli, Sez. II, 23 maggio 2025, n. 3963).

L’orientamento opposto, invece, ha ammesso l’avvalimento premiale anche per la certificazione della parità di genere, assimilandola alle certificazioni di qualità. Secondo questa impostazione, tutte le certificazioni – comprese quelle di parità – sarebbero finalizzate ad attestare la capacità di un’organizzazione di strutturarsi e gestire risorse e processi produttivi secondo i requisiti della norma di riferimento (TAR Marche, 7 novembre 2024, n. 862). In assenza di un divieto espresso, si è ritenuto pertanto ammissibile l’avvalimento, a condizione che il relativo contratto preveda che sia “messa a disposizione l’organizzazione aziendale” che ha consentito al soggetto ausiliario di ottenere la certificazione. Si tratta di una formula già impiegata in giurisprudenza per l’avvalimento (ai fini della partecipazione) della certificazione ISO 9001, rispetto alla quale, tuttavia, la sovrapponibilità con la certificazione della parità di genere appare – come si vedrà – discutibile.

Nonostante la specificità dei KPI previsti dalla UNI/PdR 125:2022, si segnalano pronunce che hanno ritenuto sufficientemente concreta la messa a disposizione delle risorse ausiliarie attraverso un contratto basato su un servizio di consulenza non inferiore a due ore mensili, la condivisione della documentazione predisposta per il conseguimento della certificazione, lo svolgimento di audit indipendenti per la valutazione dei KPI e l’accesso all’intero sistema di gestione conforme alla prassi UNI/PdR 125:2022 (TAR Toscana, 10 giugno 2025, n. 1026), con un approccio che appunto richiama da vicino quello seguito per la ISO 9001, ma che potrebbe risultare meno aderente alla natura della certificazione della parità di genere.

Arriva il Consiglio di Stato

Nel giugno del 2025 è arrivata la prima sentenza sul punto del Consiglio di Stato, che prima si era espresso solo sull’avvalimento interno al RTI, giungendo all’ovvia conclusione che, se il disciplinare richiede il possesso della certificazione da parte di tutti i membri del raggruppamento per attribuire il punteggio, allora questa non può essere oggetto di avvalimento da un membro a un altro, pena uno “spogliamento” dell’ausiliaria paragonabile al passaggio di un biglietto del treno tra due passeggeri (Cons. Stato, Sez. VI, 11 aprile 2025, n. 3117).

Nel riformare la sentenza del TRGA Bolzano da poco richiamata, il Consiglio di Stato ha infine affermato in modo netto la possibilità di ricorrere all’avvalimento per conseguire il punteggio per il possesso della certificazione della parità di genere (Cons. Stato, Sez. VI, 18 giugno 2025, n. 5345).

Il primo passaggio logico del ragionamento del Consiglio di Stato è che anche l’avvalimento premiale risulterebbe dotato di una “funzione pro-concorrenziale”, il che, se pacifico in relazione all’avvalimento volto a consentire la partecipazione a una procedura a un soggetto sprovvisto dei requisiti, risulta meno comprensibile per l’attribuzione di punteggio a un soggetto che potrebbe comunque vincere la gara anche senza. Del resto, per come è impostata la prassi su cui si basa la certificazione, che richiede di raggiungere solo il 60% dei KPI, un’impresa che strutturalmente non riesce a soddisfarne alcuni, ben potrebbe impegnarsi in relazione ad altri, andando nella direzione chiaramente auspicata dall’ordinamento.

Il passaggio successivo riguarda ancora una volta la presunta assimilabilità della certificazione della parità di genere alle certificazioni di qualità. La certificazione comproverebbe la scelta di un assetto dell’organizzazione e dei processi aziendali in grado di assicurare inclusione ed equità di genere e costituirebbe un attributo del compendio aziendale “esportabile, come tale, nella sua oggettività da un’impresa all’altra (Cons. Stato, n. 5345/2025 cit.). Poco dopo, anche il TAR Lazio ha affermato che la certificazione della parità di genere sarebbe assimilabile alla certificazione di qualità, essendo “una certificazione di processo” e ritenuto ammissibile un contratto di avvalimento in cui l’ausiliaria metteva a disposizione “l’intera organizzazione aziendale” alla concorrente, proprio perché tale dichiarazione avrebbe soddisfatto “i presupposti individuati dalla costante giurisprudenza per l’avvalimento della certificazione di qualità” (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 2 luglio 2025, n. 12991).

L’ultima parte del ragionamento del Consiglio di Stato, infine, è difficile da confutare: se il legislatore avesse inteso introdurre un divieto di avvalimento premiale per la certificazione della parità di genere lo avrebbe fatto in maniera espressa intervenendo nella sede più opportuna, cioè sulla disciplina dell’avvalimento di cui all’art. 104 del Codice (Cons. Stato, n. 5345/2025 cit.).

Tale profilo formale è incontestabile: un intervento in merito del legislatore sarebbe stato opportuno, visto il rilievo dato alla certificazione, che ha portato addirittura a rendere obbligatoria l’attribuzione alla stessa di punteggio, e possibile, visto che il contrasto giurisprudenziale era già emerso prima del decreto Correttivo della fine del 2024.

Ad essere problematici, però, non sono tanto i passaggi delle sentenze che sottolineano che un divieto espresso dell’avvalimento premiare della certificazione non esiste, ma quelli che – in concreto – ritengono ammissibili i contratti di avvalimento impostati come quelli delle ben diverse certificazioni di qualità, erroneamente assimilando le due tipologie di certificazioni.

Quello che si vuole qui sostenere non è che esiste un invisibile generale e astratto divieto di avvalimento premiale della certificazione della parità di genere, ma che tale avvalimento risulta sostanzialmente impossibile – o quasi – in concreto.

Nella mia attività professionale ho scritto molti contratti di avvalimento – prima del 2023, per requisiti di partecipazione – relativi alle classiche certificazioni “di processo”, come la ISO 9001 o la ISO 14001. Trattandosi di certificazioni fondate su processi e sistemi gestionali, vi erano dei modi relativamente seri per “trasferire” i processi e le misure che le caratterizzano, scongiurando un avvalimento operativo meramente cartolare, quali, ad esempio, fornire manuali e know how, erogare formazione, indicare processi e strutture organizzative, dare accesso ad alcune figure professionali e via dicendo.

Le difficoltà

La certificazione della parità di genere è impostata in modo diverso e la gran parte dei KPI riguardano aspetti che è difficile, se non impossibile, “trasferire” da un’azienda all’altra, fra cui, ad esempio:

  • presenza di esponenti del sesso meno rappresentato nell'organo amministrativo e di controllo della organizzazione;
  • presenza di meccanismi di protezione del posto di lavoro e di garanzia del medesimo livello retributivo nel post-maternità;
  • percentuale di donne nell'organizzazione con qualifica di dirigente;
  • percentuale di donne nell'organizzazione responsabili di una o più unità organizzative rispetto al totale della popolazione di riferimento;
  • percentuale di donne presenti nell'organizzazione con delega su un budget di spesa/investimento;
  • percentuale di differenza retributiva per medesimo livello inquadramentale per genere e a parità di competenze;
  • percentuale promozioni donne su base annua;
  • presenza servizi dedicati al rientro post maternità/paternità;
  • presenza di policy, oltre il CCNL di riferimento, dedicate alla tutela della maternità/ paternità e servizi per favorire la conciliazione dei tempi di vita personale e lavorativa.

Anche con le approssimazioni a cui ci aveva abituati l’avvalimento delle certificazioni di qualità (peraltro più accettabile proprio perché riguardava la possibilità di accedere a una gara da parte di un operatore altrimenti escluso), è davvero difficile immaginare un contratto di avvalimento non cartolare in merito a questi profili. A meno di non dimostrare che l’ausiliaria abbia conseguito la certificazione soprattutto grazie a punteggio per gli indicatori effettivamente relativi a dei “processi” sui quali affiancherà il concorrente, non si può ignorare che un dato numero di donne nel C.d.A. o la parità salariale non sono cose che si possono “prestare”.

La parità di genere negli appalti pubblici, oltre la certificazione

La tanto attesa sentenza del Consiglio di Stato, quindi, non sembra tanto risolvere la questione, quanto spostarla sul vaglio della legittimità dei contratti di avvalimento. Per ora, le sentenze sopra richiamate si sono dimostrate piuttosto permissive sul punto, ma non si può escludere che, col tempo, maturi anche in sede giurisprudenziale una maggiore consapevolezza del contenuto e delle implicazioni della certificazione. In ogni caso, è fondamentale prestare particolare attenzione, tanto da parte degli operatori economici nella redazione dei contratti, quanto da parte delle stazioni appaltanti nella loro valutazione.

Il punto fondamentale, però, è un altro.

Non si può pensare che la sentenza del Consiglio di Stato sull’avvalimento premiale della certificazione abbia in qualche modo “derubricato” il tema della parità di genere negli appalti pubblici.
A prescindere dalla possibilità di ricorrere all’avvalimento premiale – e quindi dalla facoltà, per alcune imprese, di evitare un confronto diretto con i propri assetti organizzativi per conseguire la certificazione – tanto gli operatori economici, quanto le stazioni appaltanti devono ormai misurarsi con un sistema degli appalti pubblici in cui gli aspetti sociali rivestono un ruolo sempre più centrale.

Anche se la certificazione della parità di genere scomparisse improvvisamente, resterebbe comunque l’art. 57 del Codice, che, dopo il decreto correttivo, rinvia all’Allegato II.3, comportando l’inserimento nei bandi misure volte a promuovere l’inclusione lavorativa delle persone con disabilità, la parità di genere e l’assunzione di giovani e donne. Si vedono oggi molti bandi con clausole premiali per promuovere la parità di genere il cui impatto difficilmente potrà essere sterilizzato con l’avvalimento: dall’assenza di verbali di discriminazione, alla presenza di un asilo nido aziendale.

Si tratta di un percorso ormai tracciato dal legislatore italiano, spinto anche dall’Unione europea, che – pur con le sue contraddizioni – presenta indubbiamente un grande potenziale perché le decisioni di spesa delle amministrazioni contribuiscano a un miglioramento della società in cui viviamo.

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